Tratto dal libro
"Sarno, la memoria,
l'immagine" di LUCIO SQUILLANTE
Pensieri su Sarno
Questo lavoro fotografico di Lucio Squillante
più che una documentazione di carattere scientifico della città di Sarno pare
soprattutto una serie di pensieri liberamente e in un certo senso
sentimentalmente rivolto alla città. Non che fra documentazione e sguardo
sentimentale vi debba necessariamente essere contraddizione: anzi, utili opere
di documentazione sono
state prodotte nella storia proprio da quei fotografi che maggiormente amavano
il soggetto sul quale stavano lavorando e da esso si lasciavano coinvolgere
anche sul piano emotivo. Ma il lavoro di Squillante, del quale in questo volume
vengono pubblicati alcuni esempi, presenta una messa in codice dell’immagine
fotografica che risulta lontana dai canoni della fotografia documentaristica:
veloci tagli sul soggetto, variazioni nervose del punto di vista - frontali, dal
basso, dall’alto, scelta di luci diverse a seconda delle diverse situazioni,
avvicinamenti a dettagli che sembrano attrarre l’autore soprattutto in senso
estetico- sono tutte scelte che indicano l’orientamento del fotografo verso
una narrazione molto libera. Colpisce, per esempio, il grande valore che il
fotografo sembra attribuire, spesso, al cielo. Vi è poi un dato ulteriore molto
importante: il racconto è diviso in due parti, che dialogano fra loro
esattamente come due momenti di una vera e propria storia. La prima parte
costituisce uno sguardo sui beni architettonici del territorio di Sarno, la
seconda segnala un momento di grave crisi della città: il grave disastro
ambientale che l’ha recentemente colpita. Questo salto narrativo, questo
voluto salto di registro - una doppia pagina del volume presenta sulla sinistra
l’affresco di una Madonna con il Bambino e sulla destra un problematico
paesaggio dentro il quale un cartello scritto a mano dice “Sarno chiusa” -
indica una volta di più il coinvolgimento emotivo dell’autore Questa doppia
pagina e un luogo simbolico del libro: al di qua sta il passato di Sarno, la
bellezza perduta dell’arte antica, dell’archeologia e delle architetture
storiche; al di là la distruzione, la tragedia, il caos provocato da un evento
della natura, con la quale l’uomo non riesce a dialogare. Molto al di là del
rigore metodologico o dell’impiego di un coerente stile documentaristico -
che, come dicevamo, non appartiene a Squillante -, e molto importante
considerare l’intenzione in se di questo giovane fotografo di dedicare
attenzione al paesaggio, al patrimonio artistico e allo stato reale di un
territorio che vive una condizione certamente non facile. In molti modi la
fotografia e stata ed è strumento di riflessione sul nostro rapporto con il
territorio in cui viviamo, con la sua storia e la sua attualità. Ma ciò che
conta, oggi, è che la fotografia, portatrice di memoria, come spesso diciamo
sappia spingerci al di là, al di là della contemplazione delle vicende del
passato, siano esse storiche o naturali, verso un presente nel quale agire.
Roberta Valtorta
La torre dell'Orso e il
Vesuvio
I Luoghi di Sarno nelle pagine degli scrittori
II paesaggio di Sarno ha esercitato un fascino
costante e profondo sull’immaginario di molti scrittori, che ne hanno cantato
la mitezza del clima e le bellezze naturali. Alcuni di essi, in epoche diverse,
hanno eletto a loro dimora il territorio della città, i cui luoghi più
suggestivi sono poi stati trasfigurati in aurei versi o in squarci lirici.
Alcuni studiosi ritengono, ad esempio, che il poeta latino Tito Lucrezio Caro
si sia riferito nel suo De rerum natura alla Valle del Sarno, nelle sue
allusioni alle acque, alle umbratili nebbie, alle grotte montane, che
richiamerebbero il fertile paesaggio della pianura in cui si estende la
cittadina. Senz’altro più certa e la presenza dei maggiori intellettuali
meridionali dell’epoca aragonese nel Castello di Sarno. Qui si riunivano, come
in un ideale cenacolo letterario, gli umanisti Antonio Beccadelli, Bartolomeo
Fazio e Giovanni Pontano, forse all’ombra della fresca selva che
circondava l’austera costruzione. Ma soprattutto tra queste mura si rifugiava,
nei suoi ozi sarnensi, lacopo Sannazaro, per trarre ispirazione per i
suoi dotti componimenti. Molti storici sono concordi nel sostenere che egli
abbia scritto, prima del 1501, nel perimetro del Castello un poemetto in latino,
dal titolo Salices. La trama si incardina su un mito delicato e
struggente. Un giorno le Ninfe, abitatrici dei montani boschi di Sarno, furono
oggetto delle insane voglie di volgari Satiri e Fauni. Le divine fanciulle
vedevano ormai per sempre perduta la loro sacra verginità, allorquando
tentarono l’estrema soluzione: tuffarsi nel basso fondale delle fresche e
limpide acque del fiume Sarno, laddove esso “con il suo placido corso irriga i
pingui campi coltivati”. E, secondo la più squisita tradizione classica e
soprattutto in linea con l’intuizione ovidiana delle Metamorfosi, ecco
verificarsi il prodigio: le povere Ninfe furono tramutate in salici, che sono la
vegetazione caratteristica del fiume. Nella mela dell'800 fu poi Francesco
Masbiani, che lavorò a Samo alle dipendenze della “Società Industriale
Partenopea”, a riportare l’attenzione, parlando della “Grotta di Sant’Andrea”,
sul “gran nastro ceruleo del fiume” e sulla “vista incantevole” del
paesaggio, che oggi e colpito a morte dalla tragica alluvione del 5 maggio, ma
che con una serie d’interventi oculati può rinascere e ritornare a
testimoniare la bellezza di una città che è stata grande nei secoli.
Franco Salerno
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Tratto
della cinta muraria |
Particolare
del castello |
Sarno: una fondazione mitica
La valle del Sarno ha naturali caratteristiche
di sacralità e, per la sua fertilità, fu il cuore della “Campania felix”
degli antichi latini e la così detta “Real Valle” degli angioini. La città
di Sarno ne è il centro. Le più antiche testimonianze antropiche (seconda meta
del IV millennio a.C.) evidenziate nello strato 22 del saggio n.1 a Sarno, in
località Foce, sono da riportare ad un momento avanzato del neolitico medio e
del neolitico finale. Esse sono rappresentate da ceramica di vasellame di colore
variante dal rosa al giallo o in tricromia, dipinta ad anse con avvolgimento del
tipo barocco, riconducibili alla ceramica di grotta delle felci di Capri e di
Serra d'Alto. L’uguaglianza di questi reperti archeologici testimonia
sicuramente comunanza di stirpe o relazioni commerciali, tra gli abitanti dei
siti di Sarno, di Capri e di Serra d’Alto. Con questa premessa non può
escludersi l’ipotesi che i marinai, che solcavano il Mediterraneo seimila anni
fa, dopo essere arrivati a Capri, siano risaliti lungo il fiume alla ricerca
dell’acqua per insediarsi nei pressi della sorgente sita a Sarno. Certamente
questi naviganti, ricchi della loro cultura religioso-misterica e
tecnico-pratica, hanno subito recepito la valenza sacrale di questi luoghi
quando entrando in questa valle da occidente, vale a dire dal lato del mare, si
sono imbattuti in un immenso tempio naturale. All’ingresso, ad occidente, la
porta del tempio e costituita da due colonne, rappresentate quella di nord dal
Vesuvio e l’altra a sud dal monte Faito. Ad oriente, in avanti, il piccolo
monte Saretto, detto anche Lacolano, e dietro il massiccio del monte Saro con
pizzo D’Alvano sua vetta più alta (1134 metri), disposti a forma d’anfiteatro,
sembrano formare un immenso altare a gradini con a centro l’attuale territorio
della città di Sarno, ai piedi del Saretto, ed ai due estremi i territori delle
attuali città di Palma Campania a nord e le città di Nocera Inferiore Nocera
Superiore a sud. Le pendici del Vesuvio formano gli scranni del Settentrione,
mentre gli stalli di Meridione sono costituiti dai monti Lattari, che si
continuano nella penisola sorrentina fino a Capri. A tal proposito si fa notare
che l’antica città di Pompei, costruita rispettando lo schema dei cardi e dei
decumani, ha lo stesso di questo grande tempio costruito dalla natura. II
prolungamento verso est di via dell’Abbondanza, decumano maggiore della Pompei
antica, che va dal Foro a porta Sarno, interseca ad oriente la città di Sarno,
centro di quest’immenso
altare naturale descritto. Via dell’Abbondanza, rappresentata con la
cornucopia nel fregio della sua fontana, sembra indicare ad oriente la sorgente
sacrale del fiume, simbolo della prosperità. All’epoca, a completare la
sacralità della valle, erano presenti tutti i quattro elementi: la terra, l’acqua
sorgiva del serpiginoso fiume Sarno, l’aria ed il fuoco del vulcano. II fiume,
un tempo limpidissimo, oggi ahimè quasi distrutto per le eccessive captazioni e
per l’inquinamento, era considerato divinità nell’antichità: il dio
Sarniner rappresentato sui diagrammi d’argento dell’antica Nuceria Alfaterna
con testa giovanile dai lunghi capelli e dalle corna ritorte d’ariete, simbolo
dell’abbondanza che il fiume stesso elargiva con la sua acqua. II Sarno, che
poi in epoca successiva è stato chiamato anche Drago, Dragone e Dragonteo, era
rispettato e temuto come numinoso serpente uroboro che dopo essere nato dalle
sue stesse fauci (infatti una delle sue sorgenti si chiama Foce da fauces -
bocca), tinto di rosso sangue dalla sorgente solfurea della Cerola ( ora
scomparsa), si tuffava in mare di fronte alla pietra d’Ercole (lo scoglio di
Rovigliano). La posizione strategica pedemontana, la fertilità dei luoghi e la
ricchezza delle acque sorgive ha fatto si che il territorio di Sarno sia stato
oggetto, non solo del più remoto insediamento documentato della Valle, ma anche
delle successive frequentazioni archeologiche. Ricordo: i frammenti di ceramica
con decorazione embricata, del secondo saggio di scavo, con facies dell’età
del rame, attestanti una frequentazione del sito nel millennio precedente l’età
del bronzo; il villaggio dell’età del bronzo (XVIII sec. a.C.) ritrovato
sempre a Sarno in località Foce nei pressi del teatro ellenistico; i due
insediamenti del XIV sec. a.C. di cui uno in località S. Giovanni e l’altro
nei pressi di Rivo Palazzo. Non sono un archeologo, ma soltanto un appassionato
amante di questa terra e forse, per amore eccessivo, sono andato oltre il limite
consentito dagli spazi di tale pubblicazione. Colgo pero l’occasione per
invitare gli attenti esperti ad una riflessione. Virgilio nel VII canto
dell’Eneide quando parla dei Sarrasti dice: “Sarrastes populos et quae
rigat aequora Sarnus” (“II popolo dei Sarrasti ed i
territori che il fiume Sarno bagna” o meglio secondo la traduzione di
Annibal Caro, da don Silvio Ruocco - Storia di Sarno e dintorni- 1946-Vol.I
pag.29 ”de Sarrasti e de le genti che il Sarno irriga ”). Quella “et”,
che si traduce in “e”congiunzione, fa capire chiaramente che il popolo dei
Sarrasti è ben differente dai territori che il fiume Sarno irriga, cioè è
differente come ubicazione, ma non come stirpe, da quelle tribù che sono
dislocate nella valle lungo il fiume. Pertanto credo sia ragionevole l’ipotesi
che i veri Sarrasti (quelli che poi nel VI sec. a.C. hanno fondato Nuceria
Alfaterna e Pompei), non siano genericamente ed esclusivamente rappresentati
dalle sole tribù della valle, ma soprattutto siano quelli che insediavano la
Sarno antica, vale a dire l’arcano centro d’Urbula, attestato dalle fonti
storiche. E’ logico supporre che per una catastrofe naturale, simile all’attuale
frana di fango che ha cancellato parte di Episcopio, I Sarrasti abitatori della
Sarno arcaica siano stati costretti ad abbandonarla per spostarsi verso luoghi
più sicuri lontani dalla montagna. Inizia cosi l’urbanizzazione di Nuceria
Alfaterna a sud est e di Pompei ad occidente verso mare. La recentissima
scoperta di un asse viario, collegante l’antica Pompei alla via Popilia, all’altezza
di Sarno, è un’ulteriore conferma dell’esistenza di un vero e proprio
agglomerato cittadino. I numerosissimi ritrovamenti archeologici attestano
indiscutibilmente che il territorio della città di Sarno, per la sua valenza
sacrale e strategica, è stato punto nodale di una rete che ha visto l’avvicendamento
e/o lo scambio di culture: preistoriche italiche, minoiche, fenicie, egizie,
pelasgiche, opiche, osche, sannitiche, etrusche, greche e romane. Abbiamo un
glorioso passato multimillenario di cultura ed azioni, che si articola quasi
senza soluzioni di continuità da seimila anni, che tutti i cittadini con
orgoglio dovrebbero conoscere, e che non può morire cancellato nel fango.
Secondo la tradizione biblica però, il fango è il simbolo della materia
primordiale e feconda, da cui è stato tratto l’uomo. Ripartiamo dal fango,
come terra vivificata dall’acqua, e riscopriamo con forza la nostra dignità
per una rinascita finalizzata al compimento della grande Opera della
ricostruzione degli uomini.
Dott. Domenico
Squillante Presidente Rotary Club Nocera-Sarno
Il "5 maggio" Sarnese
I luoghi dell’immane disastro del 5 Maggio
1998 sono i Monti di Sarno (o Saro) e le zone sottostanti di Episcopio, Sarno e
Lavorate. La causa è una pioggia lenta e costante per più di un mese che ha
certamente favorito lo smottamento contemporaneo di tonnellate di arena,
pozzolana e lapillo, abbarbicate da secoli sui pendii di più di una ventina di
costoni e valloni, (più di 12 ad Episcopio, frazione a nord di Sarno) che
svettano lungo la catena del Saro, situato di fronte al Vesuvio e ai Monti
Lattari, cioè a monte dell’ampia piana del fiume Sarno che giunge sino a
Pompei e Castellammare. Per chi conosce bene la zona e il passato di questa
antica terra, episodi di grossi disastri ambientali come questo, sono da dirsi
senza dubbio epocali, cioè, al di là dei periodici terremoti ed eruzioni del
Vesuvio, si sono avuti a distanza di secoli e documenti inediti attestano qui un’eccezionale
alluvione nel ’500 ed un esteso fenomeno di bradisismo nel 1600. In questo
nostro secolo abitualmente, oltre al suo famoso vento di tre giorni, Sarno ha
registrato grosse alluvioni di carattere torrentizio con acqua, terreno e
pietre: l’ultima più violenta, che fece galleggiare le auto, si e avuta nel
1988. Ritorniamo alla catastrofe dello scorso 5 maggio per delineare i percorsi
delle frane, le distruzioni delle fasce abitative e le responsabilità civili e
politiche. Tutte le varie frane sono avvenute lungo i maltrattati valloni di
Cortedonica, Celle di Colle, Malopasso, Vallone di Quindici, Funicella, Tuoro,
Porca Grande, Trave, Cantariello, Santa Lucia e Tre Valloni. Ora tenendo
presenti tali percorsi naturali e
l’incresciosa situazione dei canali e delle vasche di bonifica, la distruzione
completa di più di un centinaio di case e la morte di 137 persone, e avvenuta
esattamente lungo i tracciati dei canali di bonifica e nelle adiacenti zone
agricole, dove, negli ultimi decenni, si e permessa una disseminazione
incontrollata di abitazioni per lo più abusive, ed entrate poi nella generosa
sanatoria. Se ci fosse stato il rispetto della natura, con rigorose norme
edilizie, sicuramente oggi non piangeremmo la perdita di tanti cari e la
distruzione di tante case. Si, perché non è assolutamente vero che è
scomparsa come dice la stampa e la tv, la frazione di Episcopio! Anzi l’antichissimo
insediamento, a cominciare dai longobardi, di questo quartiere pedemontano,
conserva tuttora intatti i vari nuclei del suo centro storico (via Milone, Curti,
Piazza e via Duomo, via Vescovado, vico Bottega, vico S.Chirico, via Pace, via
Casamonica) con i suoi numerosi ed importanti elementi storico-architettotinici,
del ’600, ’700 e ’800. Persino il martoriato ospedale di Villa Malta (via
Pedagnali) ha conservato la struttura settecentesca ed ha salvato alcune case di
fronte. Invece le numerose abitazioni distrutte sono quasi tutte di recente
costruzione in zone per lo più a rischio o persino sui canaloni della bonifica;
e, a tal proposito, è emblematico il catastrofico taglio trasversale di viale
Margherita. Perciò, al di là dell’evento specificatamente naturale, ci sono
anche gravi responsabilità politiche e civili.
Salvatore D’angelo
Sarno: cenni storici
Quel giorno, che rimarrà per sempre
imprecisato, di un anno tra il 1880 ed il 1680 a.C. successe veramente di tutto.
Mentre un impetuoso vento da sud-ovest soffiava sul cratere del Somma-Vesuvio,
il cielo si fece nero come la pece, oscurato da gigantesche e dense nubi di
pomici e lapilli che presero a vorticare nell’aria incombendo su tutto come la
più imprevedibile delle minacce. II ruggito del vulcano cresceva sempre più e
si fece insostenibile dopo tre ore. E
mentre ceneri e pomici di piccole dimensioni venivano scaraventati per ogni
dove, raggiungendo finanche il cuore dell’Irpinia, le zone più vicine alla
montagna infuocata ne ricevevano le colate piroclastiche. A queste tennero
dietro le “nubi ardenti” dove il gas era frammisto in una micidiale miscela
a magma e materiali solidi. Poi sopraggiunsero, incontenibili, le colate di
fango. Niente poteva trattenerle nella loro folle corsa che trascinava via ogni
cosa, mentre fossi ed alvei venivano colmati e le strade non esistevano più!
Furono ore lunghissime quelle che trascorsero mentre la catastrofe si compiva.
Quei pochi che riuscirono a salvarsi erano stati i più pronti a scappare al
primo accenno della pioggia di pomici. Per tutti gli altri non ci fu scampo,
alcuni asfissiati dai gas tossici sprigionati dalle pomici, altri spazzati via
dalla vorticosa discesa della “nube ardente”. Quel maledetto giorno la
colonna eruttiva si era alzata minacciosa nel cielo per 30 Km prima di
disperdersi verso nord-est sotto l’azione del vento con i suoi quattro
miliardi di m3
di materiale. La storia vulcanologica della nostra regione avrebbe poi dato alla
catastrofe il nome di “eruzione delle pomici di Avellino”, drammatica e quasi
fedele anticipazione dell’evento pliniano del 79 d.C. che avrebbe seppellito
Pompei. A subire la sorte della città vesuviana era stato, diciassasette secoli
prima, un piccolo villaggio del Bronzo antico, sorto presso una delle
scaturigini del fiume Sarno, piu tardi denominata Foce con evidente allusione
alle fauci spalancate del corso d’acqua. Eppure quel villaggio di capanne con
elevato d’argilla e strame sorretto da pali - che ha restituito tazze carenate,
olle ed anche scodelloni sottilmente incisi- era stato preceduto, intorno alla
seconda meta del IV millennio a.C., da un insediamento neolitico che in base
agli indizi ceramici ebbe relazioni con la facies di Capri e Ripoli e con quella
di Serra d’Alto, segno evidente del precoce popolamento della Valle del Sarno. E
cosi, intorno al XIV sec. a.C., nella media età del Bronzo, anche l’altra
sorgente del Sarno, quella di Palazzo, favorisce lo stanziamento di gente di
cultura appenninica che utilizza tazze carenate con decorazione a fitto
punteggio. Poi tutto sembra finire. Ma e solo un’impressione perché dal IX sec.
a.C. a San Marzano, San Valentino e Striano si ritrovano insediamenti della
cosiddetta ”cultura delle tombe a fossa” riferibili alla tribù dei Sarrasti,
tramandandoci anche dai versi di Virgilio, una popolazione di ceppo “italico”
che forse raggiunse la Valle del Sarno provenendo dall’area danubiana dopo aver
valicato le Alpi del Sarno provenendo dall’area danubiana dopo aver valicato le
Alpi o aver attraversato l’Adriatico dalla sponda illirica verso quella picena.
Nella nostra Valle abitarono villaggi di capanne la cui struttura e desumibile
dalle tombe superstiti, fosse rivestite di ciottoli e circondate da un canale
anulare in cui il defunto era deposto in posizione supina e col corredo
collocato presso la testa e ai lati del corpo. Fu questa popolazione che a meta
dell’ VIII sec. a.C. entrò in relazione coi coloni greci dell’Eubea,
quegli stessi che li avevano cacciati con la violenza dal sito della futura
acropoli di Cuma prima di avviare con loro un ineguale scambio commerciale per
procurarsi derrate alimentari contro vasellame non pregiato. Ma il rapporto
economico coi Greci fece lievitare il tenore di vita dei Sarrasti presso i quali
cominciò a determinarsi un’articolazione per classi della società. Tuttavia e al
sopraggiungere degli Etruschi che il fenomeno urbano mette radici. Alla fine del
VII secolo viene fondata Nuceria e si determina un grande processo di
inurbazione cui fa da contrappunto lo spopolamento, nel VI sec. d.C., dei
villaggi sarrasti le cui necropoli vengono abbandonate. Per una cosa che
finisce, un’altra ne comincia. Nuceria avvia la sua vicenda venticinque volte
secolare e la comincia con una straordinaria avventura che si caratterizza con
un’anomalia. Quella di una città governata da Etruschi ma abitata da Sarrasti
provenienti da tutta la Valle i quali perciò vedranno in essa la loro città per
definizione e non ne costruiranno altre fino al collasso di Nuceria stessa agli
inizi della dominazione longobarda. Prima di allora lungo le grandi vie di
comunicazione sorgeranno solo insediamenti sparsi di contadini, ville rustiche
ed aree santuariali senza mai evolvere a veri e propri “vici”. In questo
contesto si debbono allora inquadrare sia le tombe della fine del VI sec. a. C.
ritrovate nell’odierno territorio sarnese, pertinenti forse a fattorie isolate e
caratterizzate da ricchi corredi provenienti dall’area pestana ma anche dalla
Campania settentrionale, sia le sepolture sannitiche della necropoli di Garitta
del Capitano, sia quelle di Villa Venere, rispettivamente a nord-ovest e a
nord-est del centro storico di Sarno. In un arco temporale tra la fine del IV ed
il II sec. a. C. si colloca il materiale fittile votivo pertinente al santuario
di Foce, verosimilmente dedicato ad una divinità agreste femminile poi accolta
nel culto cristiano della Vergine venerata in Santa Maria della Foce. II
santuario di Sarno era collegato al teatro ellenistico-romano della seconda meta
del II sec. a. C. la cui cavea conserva la gradinata di tufo giallo, avente
all’estremità delle file iniziali braccioli scolpiti a sfingi e zampe leonine.
La scena, a pianta rettangolare fu realizzata con la caratteristica pietra di
Sarno e, alla fine del I sec. a. C., fu trasformata in pulpito mediante la
chiusura di quattro delle cinque porte originarie. Danneggiato dal terremoto del
62 d. C., il teatro fu ricoperto da lapillo del 79 d. C. e bisognerà arrivare al
IV sec. d. C. per ritrovare a Foce tracce di focolari, segno di una ripresa di
frequentazione durata fino all’eruzione del 472. La vita poi ritorna nello
stesso sito di Foce in età longobarda quando la mensa vescovile vi avrà una
delle sue stanze più ricche. Intanto presso il rio Palazzo, chiamato Foruncolo,
prende corpo il centro storico di Terravecchia che finirà con l’essere incluso
nella cinta muraria del castello in cima alla sovrastante collina. Testimonianze
dell’insediamento longobardo sono le tombe di Episcopio affiorate nell’area
degli edifici INA Casa e soprattutto quelle di Villa Venere che furono
realizzate con tufo di Sarno e coperte mediante lastroni irregolari. Tra queste
ultime la tomba 571 si segnala per il corredo costituito da un paio di orecchini
d’oro e da una fibbia di bronzo bagnata nell’argento che ci ha conservato il
nome del defunto, Lupo, attestato a Nocera, Salerno ed Angri con sopravvivenza
ad Amalfi ancora nel XII secolo. Comunque, entrambe le necropoli sono in
rapporto - più arretrato quella di Episcopio e diretto l’altra di Villa Venere -
con il tratto della via Popilia individuato dal toponimo “Tabellara” con
evidente riferimento ad una delle stazioni di posta che sorgevano lungo
l’importante asse stradale romano che collegava, dal 133 a. C., Roma a Reggio
Calabria passando per Nuceria. Nei documenti di età longobarda “Tabellara” e
propriamente una località del gastaldato di Sarno che dopo il 970 fu elevato a
contea dal principe Gisulfo che ne dette il possesso al nipote Indulfo da cui
passò nel 1036 a Ratisperto e nel 1050 ad Anfrido che aveva sposato Gaitelgrima,
sorella dell’ultimo signore longobardo di Salerno, Gisulfo II. Comunque, delle
originarie strutture longobarde del Castello di Sarno nulla si conosce, anche
per l’assenza, finora, di uno scavo archeologico nell’area. Quello che è certo e
che la costruzione della struttura fortificata - suggerita da esigenze non solo
economiche e strategiche ma anche politiche, stante la sostanziale eclisse di
Nocera almeno fino all’ XI secolo - non determino un vero e proprio
trasferimento della popolazione rurale entro la cinta fortificata. Primo conte
normanno di Sarno fu il figlio di re Ruggiero, Riccardo, mentre in età sveva il
primo signore del castello fu Corrado d’Aquino morto nel 1260 alla battaglia di
Montaperti. La fortificazione, nonostante il saccheggio fattone dagli Angioini,
conserva elementi normanno-svevi nei muri a scarpata intervallati da torri
quadrangolari. Quando, più tardi, la fortificazione includerà la Terravecchia,
due torri proteggeranno l’accesso al borgo, una adiacente al convento di San
Domenico e l’altra in corrispondenza del convento di San Matteo. La prima di
queste torri, nonostante di età normanno-sveva, e detta “Aragonese”. Invece alte
mura, prive di scarpa ed in prossimità di strapiombi, si riferiscono alla
riorganizzazione angioina del castello, cui è pertinente il cosiddetto
“Torrione” articolato su tre livelli e di morfologia provenzale. Agli inizi XV
secolo il castello passa a Raimondo Orsini la cui famiglia lo terrà, con qualche
interruzione, fino al 1480 costruendo la cosiddetta “Torre dell’Orso”. Nel 1482
la conte di Sarno, da poco tornata al demanio, viene acquistata da un nobile
amalfitano del seggio di Portanova, Francesco Coppola che riversa nella gestione
del suo feudo lo spirito mercantile della patria d’origine rinnovando le
attività rurali ed artigianali del suo possedimento. E poiché nelle ”paludi”
sarnesi si coltivavano anche piante non alimentari come il lino, destinato ad
una manifattura di buon livello artistico, il conte crea nel suo castello una
vera e propria scuola di ricamo, prima anticipazione delle filande
ottocentesche! Ancora non si riesce a capire quali furono i veri motivi che poi
spingono il Coppola ad aderire, nonostante la sua mentalità aperta, alla
“congiura dei baroni” che sotto il pretesto del legittimismo angioino mirava ad
un ritorno all’antico. Probabilmente il conte di Sarno aveva perduto ogni stima
per re Ferrante che con grande irresponsabilità si era dato a sprecar quattrini
nella guerra santa contro la presenza islamica in terra d’Otranto. Fallita la
congiura, Francesco Coppola perse con la vita tutti i suoi averi. Si scoprì
allora che vantava crediti anche dagli Strozzi di Firenze, che gli dovevano
cinquemila ducati, frutto dei suoi commerci di carrozze e caldaie di bronzo, di
grano, di bombarde ed altre armi. Nel 1495 Ferrandino d’Aragona vende la contea
di Sarno ai Tuttavilla, di origine francese e con un passato cosmopolita per i
soggiorni in Inghilterra ed in varie città italiane. Finche furono a Sarno, cioè
fino al 1608, dettero alla città ed alla sua diocesi quattro conti e due vescovi
ma soprattutto ebbero il grande merito di continuare, con vivida intelligenza e
forse con più grande liberalità, le iniziative mercantili e sociali avviate dal
Coppola. Cosi Muzio Tuttavilla affidò all’architetto regio
Domenico Fontana la realizzazione del cosiddetto “rivo Foce”, un canale di
dodici miglia che portava le acque del Sarno verso Torre Annunziata per
alimentarvi i mulini la cui attività concorse non poco a modernizzare tutta
l’economia della Valle. Forse pero fu ancora più meritoria l’attività di
Guglielmo Tuttavilla che curo l’istituzione di scuole pubbliche e finanche di
una tipografia, diretta dal marchigiano Francesco Fabbro, che utilizzando la
carta prodotta a Sarno consentì la stampa di un manuale di grammatica e retorica
ad uso delle scuole. Fu il primo segno di un risveglio culturale che consentì la
fervida attività di Vincenzo Colli il “sarnese”, maestro di Giordano Bruno, e
più tardi di Gian Paolo Balzarano, autore di testi giuridici editi anche a
Ginevra, e di Giovan Battista Odierna, ministro della Real Casa che pure
pubblicò in tipografie ginevrine. Mentre il castello continua a passare di mano
- nel 1624 e dei Colonna cui succedono fino al 1909 i Medici di Ottaviano - il
territorio si avvia ad una lenta opera di bonifica che comporta, tra l’altro,
l’arginatura delle tre sorgenti fluviali - di Palazzo, Foce, e Santa Marina - e
la creazione di canali per l’irregimentazione delle acque superficiali. Intanto,
nella prima metà dell’Ottocento, sorge a Sarno uno stabilimento per la filatura
del cotone - in cui operano tecnici svizzeri, francesi ed inglesi - al quale si
affiancherà una filanda che darà lavoro da ottocento a duemila operai ai quali
bisogna aggiungere gli occupati negli allevamenti dei bachi da seta che mangiano
una particolare foglia di gelso, detto appunto “Sarnese”. Oggi alle immagini di
tanti stabilimenti chiusi Lucio Squillante aggiunge quelle della catastrofe del
5 Maggio scorso che in qualche modo sembra replicare il dramma con cui si è
cominciata questa narrazione di vicende lontane. A qualcuno queste poche note
potranno sembrare eccessivamente dolenti, aprendosi e concludendosi con episodi
che si vorrebbe destinare all’oblio. Forse pero e più giusto ricordare, grazie
anche alla fotografia, la storia che abbiamo alle spalle la quale insegna pure
come sia sempre possibile, dopo l’accanirsi delle avversità, riprendere e
rendere più feconda l’opera di quelli che ci hanno preceduto.
Antonio Pecoraro
Presidente Archeo Club Nuceria Alfaterna
LUCIO SQUILLANTE, diplomato presso il
Liceo Artistico Statale di Salerno e l'accademia di Belle Arti di Napoli, ha
conseguito il diploma di specializzazione in fotografia presso il Centro di
Formazione Professionale "R. Bauer" di Milano. E' responsabile del
" Progetto Immagine" di catalogazione fotografica a cura della
Cooperativa "Decor Art", finalizzato alla valorizzazione dei Beni
Culturali. Ha esposto alla facoltà di Architettura di Milano, al "Mois de
la Photo" di Reims e all'Istituto di Studi Filosofici di Napoli. Ha
pubblicato le sue fotografie in vari volumi, tra cui "Le tribù lucane tra
Magna Grecia e Roma" di R. Catalano per il Dipartimento di scienze
dell'Antichità dell'università di Salerno
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