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Ubi Loci
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Ubi Loci

 

Sottili nubi di nebbia salmastra e fumo coprivano il lungo bancone sommerso dalle braccia della folla in piedi. Per lo più marinai appena sbarcati. 
Fred e Franck avevano otto mani a servire grossi boccali di birra, bourbon troppo secco per essere bourbon e gin troppo muschiato per essere vero gin. 
Risate alcoliche dondolavano tavoli traballanti, scampati a naufragi di navi ormai demolite. 
Mary, la figlia maggiore di Fred, servendo bottiglie e bicchieri a bavosi ubriaconi, schivava con abili mosse del bacino ogni tentativo di carezza al suo grasso sedere. 
Virginia, la più piccola delle due figlie di Fred, stava cercando di rianimare un signore vestito di scuro, sprofondato in un angolo accanto alla porta della toilette, la faccia nascosta dalle ginocchia serrate in un abbraccio. 
Difficile credere che un uomo potesse dormire in tale posizione. Lo chiamò un paio di volte. Non vedendo alcun accenno di risposta, Virginia lo scrolla per la spalla e urla:
- “ Signore! Signore! Si sente bene? Signore, si svegli! Si sente bene? ” 
L’uomo ha uno scatto di brusco risveglio. Allunga le gambe e lascia cadere una cartella di cuoio. Stira le braccia, poi si mette le mani in testa e scompiglia i radi capelli neri. 
Massaggia nervosamente il viso, lisciando i baffetti, deglutendo continuatamente come per cercare di accordare i suoni che avrebbe ora pronunciato.
-“ Nooon gridaaare ”, biascica a stento. 
Virginia non riesce a sentire, ma finge di aver capito. 
L’uomo la guarda. Ha occhi lucidi e sanguigni. Allucinati. 
In fiamme per i liquori consumati durante tutto il giorno.
Le fa cenno di aiutarlo a rialzarsi. La ragazza avvicina una 
sedia, lo tira su per un braccio e lo fa sedere. Prende la cartella di cuoio dal pavimento e gliela porge.
-“ Come ti chiami? ” le chiede in un momento di sospeso silenzio. 
-“ Virginia ” risponde semplicemente la ragazza.
-“ Ah, Virginia! Certo, Virginia! Quale altro nome potevi avere? –sorride, ubriaco e felice- Senti Virginia, mia cara, prima di ordinare vorrei che tu mi promettessi di fare una cosa per me. Vedi questa cartellina di cuoio –parlava ora con estrema chiarezza- ti chiedo di custodirla per me. Temo che potrei smarrirla, prima di stanotte. Domani mattina tornerò a riprenderla. Puoi fare questo per me, Virginia? Puoi, per me? ”
Apre la cartellina. Vede solo fogli di carta scarabocchiati d’inchiostro. Virginia non sapeva leggere.
-“ Non mi ha detto nemmeno il suo nome, signore? ” 
-“ Te lo dirò domani, quando verrò a riprenderla. Ora vorrei che tu mi servissi un doppio gin. Verrò a berlo al banco”, dice alzandosi sicuro. In lucido equilibrio si avvia verso il bancone. 
Evita la folla ubriaca, per lo più marinai, e senza fermarsi esce dallo Shark.
Non tornò a riprendere la borsa di cuoio, né il giorno seguente né mai più.
Dopo qualche tempo Virginia mostrò a Jack gli scritti che lo scuro signore coi baffetti le aveva affidato e gli chiese di leggerle di cosa si trattava. Franck aveva appena finito di asciugare l’ultimo dei bicchieri per la serata. Getta lo strofinaccio sul banco:-“ Les lieux de l’endroit –legge- Che diavolo significa? ”


La luce è quella soffusa, verdastra, delle lampade a olio sui tavolini. C’è odore di tabacco e di assenzio nel brusio del caffè, affollato a quell’ora della tarda sera. 
Alcuni signori guardano la pioggia cadere sulla strada. Rimangono così, ipnotizzati dalle gocce silenziose oltre i vetri.
La porta si apre e una folata di pioggia si sparge sulla soglia. Entra un ragazzo, bagnato fradicio, il berretto gocciola sul suo naso. Chiude la porta. Cammina lasciando orme d’acqua al suo passaggio. Sotto il pastrano stringe qualcosa, qualcosa che ha riparato dalla pioggia. Osserva le persone sedute ai tavoli e al banco. Si guarda intorno, sperando che qualcuno si accorga di lui, venuto a Parigi per consegnare una borsa di cuoio. Da Le Havre è venuto perché qualcuno sta aspettando di ricevere la borsa di cuoio che un signore appena sbarcato dal nuovo mondo e diretto a Dover gli aveva affidato. Il signore cui era destinata aveva premura di riceverla al più presto.
-“ Ragazzo, è me che stai cercando? ” dice una voce alle sue spalle. 
Il ragazzo si volta. Chiede al grosso signore : –“ E’ a lei che devo dare questa? ” Mostra la borsa sotto il pastrano.
-“ Ti manda monsieur La Pitt? ”
-“ Sì, signore”
-“ Questo è il denaro. Puoi dare la borsa a me ragazzo”.
Prende i soldi e li conta. Consegna la borsa Si guarda intorno, infila i soldi nella tasca dei calzoni e in fretta esce dal caffè.
-“ Che cos’è? ” chiede monsieur Blanchot. 
-“ E’ chiaro che è una borsa –spiega ironico monsieur Rupin, prende sottobraccio il grosso signore- Cosa c’è dentro, Guy? ”
-“ Te lo dirò – bisbiglia per non farsi sentire da monsieur Blanchot - solo se prometti di non dire neanche una parola che faccia il pur minimo lontano riferimento a questa borsa, né a Gustavo, nè a mia madre. Sono certo che non capirebbero. Probabilmente penserebbero che sono folle ”.
Si siedono in un angolo del caffè, lontani da orecchie indiscrete e dalle domande di monsieur Blanchot.
-“ So che stenterai a credermi ma io sapevo che questa borsa si trovava in una locanda di Baltimora, lo Shark –monsieur Rupin lo guardava perplesso- E’ chiaro che se ero a conoscenza della sua esistenza mi chiedevo quale interesse potessi avere a saperlo”. 
Minuscole gocce di sudore gli bagnavano la fronte. Sospira. 
-“ A volte ho la sensazione di ricordare pagine lette tanti anni fa. Troppi perché sia possibile –accarezza la borsa sul tavolino-le pagine di cui parlo sono qui dentro”. 
-“ Troppo assenzio disturba i tuoi sogni, Guy ” dice monsieur Rupin.
-“ Se è vero ciò che dici, perché avrei dovuto sapere del manoscritto, di questa borsa di cuoio che puzza di cattiva cucina e di porto? In queste pagine sono certo di trovare versi che io... ricordo. Già, ricordo. Ma non sono certo di averli letti, perché non ricordo quando ”.
-“ Allora –lo interrompe monsieur Rupin- se è vero ciò che dici tu, caro il mio monsieur, permetterai che ti chieda una prova. Bada bene che, per assurdo, voglio crederti quando dici di aver saputo, non si sa come, dell’esistenza di questa borsa, lontana al di là dell’oceano, sconosciuta a tutti tranne che a te e a qualcun altro non interessato però al suo contenuto. Cosa mi dici del legittimo possessore? E’ presumibile che sia l’autore di quei versi che tu dici di ricordare? Quasi che li avessi già letti o addirittura composti tu? Recita questi versi! Sono curioso di trovarli identici in queste pagine! ” Apre la borsa di cuoio. Ne estrae il manoscritto. Le pagine sono ingiallite, vecchie di umidi anni. Le sfoglia.
-“ Ci sono luoghi e date, addirittura l’ora su alcune pagine –sfoglia e legge - Boston 28 settembre..., New York 29 settembre..., Philadelphia 29 settembre h. 0.29..., Washington 30 settembre h. 0.30..., Richmond primo ottobre h. 0,01..., Richmond primo ottobre h. 1.00, Baltimora 2 ottobre1849..., è l’ultima. ”
-“E’ l’ultima pagina di quel manoscritto, ma non è l’ultima pagina. Voglio dire –tenta di persuadere monsieur Rupin, di nascondere l’incredulità che le sue parole possono suscitare- voglio dire che quel manoscritto non è concluso ”. 
- “ Ed è ovvio – spiega beffardo monsieur Rupin - che non sapresti dire come fai a saperlo. Stai tentando di stordirmi con le tue fantasie ma non mi hai ancora dato la prova ”.
-“ Non trovi singolare che un americano scriva in francese? ”
-“ Chi ci assicura che l’autore di queste pagine era un americano? ”
-“ Edgar Poe era americano! –dice risoluto- Troverai nell’ultima di quelle pagine i versi che ora ti reciterò ”.
-“ Sto aspettando ”.
Un cameriere intanto si era avvicinato. -“Monsieur Maupassant 
–dice- è arrivato il fiacre ”.
-“ Sì, sì, va bene. Tra un momento uscirò ”.


La biblioteca privata di Palazzo d’Orbes è conosciuta da pochi lettori. Non solo perché il centro in cui sorge è spesso trascurato da carte politiche minuziose. Altrove è senza dubbio taciuto.
Comunque sia, nessuno potrebbe affermare che esiste al mondo noto biblioteca più singolare della biblioteca privata di Palazzo d’Orbes, già Palazzo Morot, dal nome del ricco mecenate che nel settecento finanziò le opere per il restauro dell’edificio, la cui costruzione sembra risalire addirittura prima dell’anno mille. 
Da allora centinaia di migliaia di libri sono stati riposti in scaffali polverosi e massicce librerie lungo i muri della biblioteca, illuminata di giorno da ampie finestre che sfiorano gli alti soffitti. 
Tantissimi sono stati i libri che nel tempo la biblioteca ha svenduto o regalato a librerie antiche. 
Nuovi libri, molti dei quali avrebbero incontrato uguale sorte, hanno occupato gli scaffali polverosi e le massicce librerie. Solo alcuni sarebbero rimasti nei secoli, fino ai giorni di ancora.
Tra le migliaia e migliaia di libri che la biblioteca nel tempo custodisce è impossibile poter leggere un solo libro che sarebbe invece facile trovare in una comune libreria, o possibile consultare in qualche imponente biblioteca pubblica, dove ancora sono preservate rare edizioni fuori stampa. 
Nella biblioteca di Palazzo d’Orbes non solo sono custodite copie uniche di opere dimenticate, libri sconosciuti di anonimi, libri che nessuno potrebbe leggere perchè nessuno sa che sono già stati scritti, libri che nessuno più legge perchè seppure qualcuno ne conosceva l’esistenza è ormai morto da tempo. Libri che è possibile trovare solo tra le infinite gallerie e gli infiniti corridoi della biblioteca di Babele.
Che la biblioteca sia singolare lo dimostrano le numerose opere autografe che la biblioteca possiede. Abbozzi di romanzi, esercitazioni letterarie, fantagrafie generate dal naturale impulso a scrivere, manoscritti di inediti talenti mai conosciuti prima di poterne leggere il nome su un foglio ingiallito, ma soprattutto opere mai èdite di noti scrittori ormai scomparsi, le cui pubblicazioni incontrano tuttora meritato consenso e sentito plauso. Tra i numerosi manoscritti è doveroso ricordarne qualcuno. 
Animi universi et mundi, ritenuto dalla moderna lettura filologica di scuola francese apocrifo di Lucrezio. 
Carnascialia, di Jean Lorrain. 
Undici storie di ombre e di prigionieri, di Jorge Luis Borges. Comparse, di Pietro Paolo di Francesco. 
I luoghi del dove, un manoscritto non ancora concluso. 
Opera scritta nel tempo. 
Testimonianze certe provano che l’opera sia stata iniziata dal grammatico Mauro Pusillo Spurio, più noto ai tempi della sua permanenza a Marsiglia, tra la primavera del 107 a.C. e gli inizi d’inverno del 142, come Mauro Edanimo di Zela. In origine il titolo del manoscritto era Ubi loci.
Le Popp, dopo aver dedotto dagli scritti di Mauro Pusillo un ‘Lessico Edanimi’ ha affermato che la parte dell’opera scritta da Mauro è un’ autobiografia dell’ autore. 
L’ esegesi di Fraenkel, che solo in quest’ambito riprende e condivide le intuizioni di Broullard, parafrasa la conclusione delle pagine di Mauro come la dichiarata consapevolezza dell’autore di dover forse rispettare dei tempi stabiliti entro cui completare la stesura della sua parte “...mentre è a me chiaro di sapere dove non sto andando, senza sapere dove andare ”.

Pietro Moretti

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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